DISCLAIMER- questa è la bozza nuda e cruda di un progetto di scrittura per cui si parte da un testo fatto volutamente male da correggere successivamente
PT. 4
Cristina aveva parcheggiato l’auto sullo sterrato su cui si era trovata appena al di fuori di una galleria dell’autostrada. “Strano” era l’understatement del secolo. Ma lì era dove il navigatore l’aveva condotta, davanti a quella specie di vecchio benzinaio abbandonato.
“La cosa mi puzza” pensò “Ma non mi interessa, entro, annullo tutto e me ne torno a casa”.
Certo non si sarebbe aspettata di entrare in quello che sembrava il dietro le quinte di un teatro.
Un corridoio stretto, illuminato da pozze di luce qua e là, silenzioso come solo un posto trattato insonoricamente può fare.
“Probabilmente è dove fanno le prove” pensò di nuovo.
Un essere alto, lungo e secco come un insetto, ma chiaro come un raggio di luna le si manifestò accanto, spaventandola
“Oh! Eccoti, benarrivata, ti stavamo aspettando!” cinguettò nervoso “piaceresononembo” disse tutto d’un fiato, prendendola sotto braccio e conducendola attraverso una porticina sulla sinistra del corridoio.
“Ti lascio qui cinque minuti a rinfrescarti intanto vado ad avvertire gli altri che sei arrivata, così si preparano, mi raccomando prendi qualcosa dal buffet, ti suggerisco soprattutto il… ehm… la spremuta di melograno, la brocca rossa là, sì quella…”
Pervinca, Giaietto e Osmanto non stavano più nella pelle, non riuscivano a stare seduti ma il Borgomastro aveva dato loro precise istruzioni di non farsi avanti fino a un suo segnale.
“Hai portato la nostra… ospite… a rinfrescarsi?”
“Sì, Borgomastro”
“E ha bevuto?”
“Sì, Borgomastro”
“Te ne sei accertato personalmente, Nembo?”
“Sì, Borgomastro, certamente”
“Ottimo” rispose lui, alzandosi per portarsi al centro della stanza dei muschi, addobbata per l’occasione da festoni di carta, ghirlande di fiori e ogni ben di dio sul tavolaccio di legno “Portala qui”.
Quando Nembo, pochi secondi dopo, rientrò con Cristina sempre sottobraccio, l’aria si rarefece.
Cristina non ci stava più capendo nulla, quel posto era strano, ma non le importava voleva solo stracciare il contratto e tornarsene a casa. Ma quel Borgomastro, quando Nembo gliel’aveva presentato, era inquietante. Le aveva detto di non fissargli le orecchie, ma ovviamente le fu impossibile. Una era forse a punta? Ma non era quello il suo problema, gli occhi. Gli occhi sembravano scandagliarti l’anima come un sonar sottomarino.
Il Borgomastro, per parte sua, era rimasto folgorato, qualcosa di simile, ma più tenero, alla sensazione che aveva avuto al petto quando aveva scelto la sua pietra del Borgomastro.
In quei pochi, interminabili secondi, si fece largo dentro di lui una nuova consapevolezza: la donna davanti a lui era l’ingrediente finale per il suo piano di vendetta… ed era anche la donna della sua vita, e così non si trattenne più
“Unisciti a noi” tuonò, tendendole la mano
“Ecco, sì, buongiorno, proprio di questo volevo parlare”
“Unisciti a noi!” fecero coro quelli che a Cristina sembrarono tre bambolotti assortiti di una qualche linea di giocattoli per bambine: c’erano capelli dalle tinte pastello e dalle varie lunghezze, lustrini sui vestiti, bicipiti in mostra, più collane di quante se ne riuscissero a contare.
La festa sembrava essere iniziata in modo spontaneo, ma Cristina decise di imporsi urlando “Aspettate un attimo!”
Tornò il silenzio e tutti si disposero ad ascoltarla, lei continuò “Sono terribilmente in imbarazzo, vedo che mi avreste riservato un’accoglienza
“Degna di una regina” completò per lei il Borgomastro, rapito
“…sì, no, be’, comunque… Il punto è che non so che cosa vi siate detti con mia madre ma c’è un problema, o meglio, più di uno ma” si stava impappinando, non era abituata ad avere persone di fronte che la fissassero con tanta adorazione.
“Il punto è che” si ricompose Cristina “non so ballare, non so cantare, non ho la benché minima intenzione di imparare adesso e soprattutto io non voglio” lo sottolineò rimarcando l’inflessione verbale “fare parte di questo gruppo, ho già un lavoro, una vita, mi va bene così. Quindi grazie, sembrate tutti deliziosi, ma arrivederci, in bocca al lupo e tante care cose” così dicendo si girò per andarsene, ma il Borgomastro le si parò davanti.
E poi si mise in ginocchio, prendendole la mano.
“Non te ne andare, unisciti a noi” disse, serio serio.
“Grazie, ma no grazie” rispose lei, non riuscendo a riprendersi la mano.
Il Borgomastro a questo punto si alzò in piedi, torreggiandole di fronte e ponendosi come ostacolo fra lei e la porta “non hai capito” spiegò “non hai scelta, il contratto è vincolante, è tuo destino essere qui”
“Si stracciano miliardi di contratti ogni giorno, non sia ridicolo, mi lasci passare”
“Non quel contratto, quella è carta straccia ormai” continuò lui imperterrito “L’altro contratto” insinuò.
Vedendo che lei non capiva, e godendosi un po’ la sensazione dei suoi soliti compari pendere dalle sue labbra, spiegò ulteriormente “Il contratto che hai firmato, bevendo il succo di melograno. Mai letta la mitologia? Eppure nel vostro mondo vi riempite tanto di paroloni come cultura e studio…”
“”Mi faccia capire: io ho mangiato tre chicchi di melagrana, sarei Persefone e lei Ade? Ottimo, chiamo io la neuro o fate da soli?”
“STOLTA!” gridò lui, e le pareti parvero tremare “Non vedi cosa ti offro? La fama, la gloria, il glamour… e il trono al mio fianco!” si azzardò lui e, così dicendo, la stanza di muschio si dissolse per rivelare un palazzo fatto interamente di alabastro e cristalli. Nembo tornò ad essere un arazzo sul muro e i tre artisti dai capelli variopinti emisero un coro perfettamente armonizzato di “Oooohhh”.
Non c’era scampo, non c’era via di fuga, Cristina si consultò internamente per capire se quello che i suoi occhi vedevano e gli altri suoi sensi percepivano fosse frutto di qualche droga che le avessero somministrato di nascosto, ma si sentiva perfettamente normale. E profondamente incazzata.
Guardandosi le mani, per sincerarsi di essere ancora in sé, notò che anche i suoi abiti erano cambiati, indossava ora… era un vestito da sposa, quello???
“NO!” urò con tutto il fiato che aveva in corpo e poté giurare che i lampadari a soffitto si fossero messi a tintinnare in risposta “Non mi avrete mai, non so come me ne andrò da qui, ma troverò un modo!”
“STOLTA!” urlò per la seconda volta il Borgomastro, “il tuo destino si compie qui e se te ne vai crollerà tutto, questo mondo e il tuo!”
In tutto questo urlare e tramutarsi, nessuno aveva notato che da una porticina sul retro, quando ancora erano nella stanza del muschio, era entrata una figura che tentava di farsi piccola e invisibile. Una figura che era quindi stata portata nel palazzo del Borgomastro insieme a tutti gli altri e che ora stava costeggiando navate e colonnati per avvicinarsi senza farsi notare.
Cristina colse un movimento con la coda dell’occhio e…
“Papà?” chiese sbigottita
Franco, detto Frank dagli amici, decise allora di entrare ufficialmente in scena e di mostrarsi a tutti.
“Borgomastro! Lascia andare mia figlia! Non è per te!” disse, puntando un tremante indice e tenendo l’altra mano affondata nella giacca
“Stupido mortale, cosa sei venuto a fare qui? Non sai che non puoi nulla?”
“Io forse no, ma ti ho sentito quando dicevi che nel nostro mondo si studia e c’è la cultura”
“Ebbene?”
“Ebbene ho qui qualcosa per voi” e Frank estrasse dalla tasca un grande chiodo.
“Tutto lì? Un chiodo? Cosa vorresti fare, Frank, appenderci i quadri?” rise il Borgomastro, e con lui il resto della corte.
“Non è un semplice chiodo, è un chiodo di ferro!”
I volti si fecero cerei “No! Il Ferro no!” urlarono in coro.
Ma era troppo tardi, Frank si era già lanciato con tutta la sua forza verso il trono del Borgomastro e, poco prima che chiunque potesse fare qualcosa, vi piantò dentro il chiodo fin quasi alla capocchia.
Uno squarcio si aprì nello spaziotempo, di qui il palazzo, di là l’autostrada, di sopra la stanza di muschio, di sotto casa. Queste le cose che i nostri riuscirono a vedere, prima che tutto si polverizzasse come se il tempo fosse scorso tutto in una volta.
PT. 3
Il Borgomastro attende assiso per parchi attimi; lo sguardo erra oltre la stenta fiamma di un lume. Cogita, meditabondo, e a un prossimo osservatore sarebbe quasi possibile scorgere le rimembranze scorrenti sui vitrei occhi, alla guisa d’una pellicola cinematografica.
In verde età, è qui – il Borgomastro – scarsamente un Puck, eppure presente in lui è la determinazione di voler dedicare l’intera sua esistenza alla corale e alla coreutica: codeste le Muse a lui affini. La tempra lo spinge già a eleggere la sua Pietra della Predestinazione.
Eppure, tutt’intorno a lui, gli intimano di attendere, esplicandogli quanto ancora sia verde l’ora, per siffatta decisione: lo spuntar d’un’ala da Fatua o d’un corneo sperone da Satiro, questi saranno gli eloquenti eventi, atti a permettergli di decidere.
Sicché egli pazienta al massimo delle sue giovani forze, ma proprio a causa della sua giovane natura fatica a contenere il disappunto, la smania e la frustrazione. Ad aggravare il computo: la situazione familiare. Le due creature donantegli i natali ingaggiano sovente continui diverbi – superficialmente parrebbero questioni di giare di miele altrui, o altre simili facezie, sarà solo da creatura Metamorfata e adulta che egli comprenderà in toto: adulterio, l’assurda concezione mutuata dal Mondo Umano, ecco di cosa si trattava in realtà – purtuttavia, egli ancora pazienta.
Qualche decennio è trascorso, ora, ma tristemente di fessi zoccoli o magici marchi non v’è segno. Il giovane non ancora Metamorfosizzato ne soffre nel suo intimo più segreto ma, incapace di esprimere appieno tali complesse e profonde sensazioni, diviene solo più irrequieto e impaziente.
Le sue due madri, inoltre, disquisiscono estremamente di rado e quando ciò – fortuitamente – accade, si tratta di assai animati diverbi riguardanti anche la mancata Metamorfosi del loro erede. Ne consegue, in un’abitudine tristemente ovvia, che non v’è niuno avente lume dello stato in cui versa il giovane, non v’è Creatura richiedente da lui spiegazioni o ponente a lui questioni – mirate o disinteressate che siano. Le uniche parole che il giovane si sente rivolgere – riguardanti la sua Metamorfosi – sono ancora una volta le stesse di decenni orsono: attendere, pazientare.
Sino a quel fatal giorno.
In un giorno di assai comune primavera, una gran pena alle auricole lo coglie e lo desta dal suo sonno. Il dolore è tale da renderlo quasi sordo, di conseguenza il giovane si rizza dal letto in cui aveva giaciuto per recarsi con urgenza estrema al più vicino specchio d’acqua. Sulla superficie benefica, lucida e riflettente del vitale liquido, il giovane può finalmente osservare le sue fattezze e discernere il principio della sua fisica afflizione: le sue due uditive appendici appaiono tinte d’una sfumatura fulva, come se una viva fiamma vi brillasse dall’interno.
Chiaro ed eloquente sintomo d’una Metamorfosi in pieno scorrere, il rasserenato giovane vede ora davanti a sé un futuro da Creatura elfica, si staglia davanti a lui nel nitore della predestinazione l’apicale momento della selezione e adozione della sua Pietra. Il giovane ora conosce in cuor suo che potrà cantare e danzare e a questa nitida gioia del cuore, s’aggiunge subito di seguito quella più segretamente custodita riguardante le sue due genitrici.
Il supplizio fisico ha perso qualsiasi rilevanza, alla luce dei nuovi accadimenti, e date le nuove prospettive lo strazio che avverte non ha la benché minima importanza, anche se potrebbe giurare che le orecchie stiano per conflagrare, simili a un bocciolo di rosa in primavera. Ed, estatico, torna con svelto passo verso la sua dimora.
Assaporando la felicità a venire, sull’uscio i suoi piedi si scontrano con un modesto fagotto e due più voluminose valigie. Il legno d’ingresso è spalancato e provenienti dall’interno s’odono grida e cacofonie di distrutte stoviglie. Una delle sue due genitrici esce con travolgente passo, a malapena si dà conto della presenza di lui – men che meno dello stato in cui si trovano lui e le sue orecchie. Gli raccoglie il viso coi morbidi palmi e proferisce “Mio adorato erede, non mi è più possibile soffrire le correnti situazioni, necessito di allontanarmi da siffatto antro. Quando avrai attraversato molteplici primavere, sono certa comprenderai” e così eprimendosi, raccogliendo i suoi scarni averi, sparisce per sempre.
Entrato nella dimora, incontra l’altra genitrice intenta a nettare la scena dai cocci dell’ultimo, ancora aleggiante nell’atmosfera casalinga, litigio. Una solitaria lacrima sulla bruna guancia. Desidererebbe esprimere affetto con uno spontaneo gesto, quale un abbraccio, eppure la Creatura che gli ha donato la vita è attualmente inavvicinabile.
Così, come ridestato da un pattuito segnale, il supplizio alle orecchie prepotente torna, così decide di coricarsi di nuovo acciocché la Metamorfosi possa ultimarsi al meglio.
Trascorso del tempo, nel totale silenzio orfano delle oramai quotidiane urla, il nostro si assopisce.
Quando si ridesta il tempo dice l’alba del successivo giorno: le orecchie hanno cessato il loro dolente pulsare. Il giovane reca le dita a sincerarsene ma queste, traditrici, raccontano una realtà differente da quella attesa. Corre dunque allo specchio d’acqua del precedente giorno e, orrendo, il riflesso afferma ciò che le dita avevano insinuato: solitario, un solo puntuto orecchio gli si mostra, mentre l’altro rimanda ancora, ostinatamente, la sua tonda forma.
È un mezz’elfo.
Singhiozzando, affranto e mesto, rivolge i suoi passi di nuovo verso la sua dimora dove la madre infine si desta accorgendosi del misero stato in cui la sua progenie versa.
Timidamente tenta di consolarlo, ricordandogli che mezz’elfo non è una fatale disgrazia, adduce l’ulteriore motivo di ciò rimembrando il trisnonno anch’egli mezz’elfo. Ma in verità, la madre è ancora avviluppata interiormente dal suo personale dramma per potersi curare di lui. L’unica interessante e utile cosa che riesce a proferire, riguarda la Pietra della Predestinazione: gli rammenta che ora gli è finalmente concesso eleggerne una a sua per tutta la vita.
Questo pensiero pare rincuorarlo, così egli si rassetta la figura e corre al luogo dei suoi apprendimenti. Finalmente pronto a principiare la sua adulta esistenza, se la prefigura come una lunga distesa di soddisfazioni e gioie.
Eppure, non contento, l’avverso fato sta per accoglierlo con un altro dramma.
Giunto al forziere contenente le preziose gemme, apprende che oramai il tempo trascorso è stato eccessivo e ogni singola gemma di canto e danza è stata altrimenti disposta. Altre ancora abbondano, arte, scienza, abilità, ma nessuna di queste né la loro totalità può rimpiazzare ciò che la datata brama ha ulteriormente imbellito nel cuore del giovane.
In quel preciso istante è come se qualcosa di numinoso – sopravvivente a fatica – il flebile lumicino ancora bruciante dentro di lui, si inabissasse per sempre nelle acque più scure, senza emettere un singolo suono.
Ed è in questo silenzio, che sceglie: la Pietra del Borgomastro.
PT. 2
Un globo luminoso adagiato su un trono di muschio si illuminò, morbido, pulsante. Pervinca, che era di guardia già da tre giorni, non se ne accorse subito, come ipnotizzato dal fenomeno. Quando si riebbe scattò immediatamente in piedi e corse ad avvertire il resto dei suoi compagni.
“È partita!” esclamò entrando nella sala in cui erano riuniti.
Era uno spazio piccolo, se comparato al resto delle Stanze, ma molto accogliente: un grande camino centrale riscaldava l’ambiente e lo colorava nei toni dell’ambra, scintillando caldo su vetri e argenti. Vicino al fuoco, un grande tavolo di legno, di quelli così vecchi, vissuti e curati da sembrare quasi grasso al tatto, ma molto confortevole. E poi una varietà di sgabelli -treppiedi, panchette, sezioni di tronchi, pile di cuscini, e sedie che parevano rubate a delle scuole elementari- gli si disponevano tutt’intorno, come le gemme di una corona sghemba.
Sulle pareti, verdi scuro per il fitto fogliame di rampicanti, spuntavano candelieri e porta torce, dal soffitto pendevano rami di strana vegetazione: come bave di licheni bioluminescenti, o viticci con bacche bianche, dorate dalla luce.
C’erano poi, sparsi un po’ a caso, tavolini, stipetti, credenze e poltrone: poltrone dall’aria vissuta e sofficissima, di quelle perfette per passarci ore a leggere e pisolare. A terra tappeti e coperte non si distinguevano gli uni dalle altre: indispensabili per isolarsi dall’umidità del morbido muschio che componeva il pavimento.
In questa stanza erano sparsi, come pezzi di una partita di scacchi abbandonata a metà, i compagni di ventura di Pervinca, i quali, al suo ingresso trionfale, si erano riuniti al tavolone al cui posto principale si sedette il Borgomastro.
L’agitazione era palpabile, il gruppo non vedeva l’ora di accogliere la nuova compagna: ne avevano sentito parlare dall’Oracolo, avevano visto come la profezia avesse sconvolto il Borgomastro, che da quel giorno si era speso oltre le sue forze per trovarla nel mondo degli umani e portarla da loro.
Giaietto, che era stato il più scettico all’inizio, non convinto che nel mondo “di là” fosse usanza vendersi i figli, mollò finalmente i pregiudizi e si unì ai festeggiamenti proponendosi di andare a prendere birra e pasticci di vaniglia per tutti.
Il Borgomastro prese poi la parola e tutti si zittirono. La sua voce era bassa, piena, si spandeva in onde larghe, la sentivi all’altezza delle caviglie e, quelle rare volte in cui l’aveva alzata per un piccolo accenno di rabbia, poteva farti tremare le ginocchia quasi aprendoti un piccolo buco oscuro nello stomaco.
“Dovremo aiutarla in tutti i modi a entrare nel nostro mondo, con meno scossoni possibile: come ogni figlio sperduto del Mondo Verde, ignora completamente la nostra esistenza e la sua vera natura. Chiamerò Nembo per organizzare l’accoglienza, meglio se inizia col vedere uno di noi soltanto, e voi potrete occuparvi invece di organizzare la festa di benvenuto”.
A queste parole Pervinca, Giaietto e Osmanto corsero via litigando già su birre al miele, cesti di frutta e addobbi floreali.
Quando fu solo, il Borgomastro si ingobbì e incupì un poco, appoggiò i gomiti sul tavolo e, rivolgendosi a un angolo buio della stanza, chiamò Nembo, che parve materializzarsi dal buio solo in quel momento.
“Hai sentito tutto?”
“Sì, maestro”
“Prepara la Linfa di Melograno” disse lui, unendo la punta delle dita davanti al naso
Nembo ebbe un’esitazione “…la Linfa… ma, quella…”
“Sì, Nembo. Quella.” disse il Borgomastro in un tono che non ammetteva ulteriori repliche.
Al che Nembo serrò la bocca, si inchinò e si dissolse di nuovo nel buio.
PT. 1
*Driiin driiin*
Il suono sembrava venire da lontano, da lontanissimo, dai più remoti recessi della mente.
*Driiin driin*
Cristina d’istinto allungò una mano per spegnere la sveglia, ma beccò solo il comodino. Vuoto.
Si ricordò di non avere una sveglia, di non averla mai avuta. Sul comodino solo l’abajour e un bicchiere d’acqua.
*Driiin driiin”
Il suono era insistente e costringette Cristina ad alzarsi dal letto, aprire i suoi grandi occhi nocciola e capire cosa stesse succedendo.
Era il cellulare, si era dimenticata di avere un cellulare. Il display del cellulare diceva “Mamma”.
“…’ronto?” rispose al cellulare con voce impastata dal sonno.
“Ciao cara non ti ho svegliato vero” era la voce di sua mamma che non aspettò come al solito una risposta alla domanda implicita “oggi vieni a pranzo da noi, dobbiamo parlare”.
Il tono insolitamente peppy della madre e la frase che farebbe rizzare i capelli in testa a chiunque ebbero l’effetto di una doccia ghiacciata: Cristina era completamente sveglia, neanche avesse bevuto tre tazze di caffè.
Passò le ore che la dividevano dal famoso pranzo coi genitori a passare mentalmente in rassegna tutte le ipotesi più e meno probabili.
Il tono non faceva presagire nulla di traumatico o drastico, ma “dobbiamo parlare”… quello…
Non che fosse strano andare a pranzo dai suoi, ma non c’era mai stata una richiesta così formale, così urgente.
Cristina scelse dei vestiti adatti all’occasione: abbastanza seri, nel caso in cui fosse stata una notizia seria, decisamente puliti e stirati per non farsi lamentare addosso dalla madre, ma comunque non troppo seriosi perché in fondo stava andando a pranzo dai genitori, non a un colloquio di lavoro.
E tanto comunque avrebbero avuto lo stesso da ridire. Ah, genitori!
Al primo squillo del citofono suo padre venne subito ad aprire, non aveva la faccia molto felice, sembrava nervoso. La condusse in cucina dove sua mamma la stava aspettando seduta al tavolo con un sorriso a quarantadue denti. Qualcosa non quadrava con l’espressione del padre, che era scura e nervosa. “Siediti, dai!” disse sua madre a Cristina “Ok, quindi, di cosa dobbiamo parlare?” Cristina si morse la lingua, si era detta di fare con nonchalance, di aspettare i convenevoli e lasciarli parlare, ma invece aveva parlato lei prima ancora di sedersi. “Abbiamo grandi notizie!” rispose la madre sempre raggiante “Beh, grandi…” commentò il padre, Franco, detto Frank dagli amici “Oh su dai Franco non farla così grigia” “Spiegami”
Frank iniziò a spiegare “Beh, sai, c’è stato un problema con… con… “ “Con? Forza, parla!” incalzò Cristina impaziente “Beh abbiamo avuto problemi di soldi, con il prestito che avevamo preso per i vostri studi, l’università tua e di tua sorella”
“Come problemi di soldi? Che vuoi dire papà, spiegati!”
“Beh, ecco… vedi…” tentennò lui, e la madre intervenne “Franco, muoviti, arriva al succo, voglio dire la parte bella!” “Beh, sì… bella… Comunque, si è rivelato un prestito falso, o truffaldino, in poche parole abbiamo un grandissimo debito con la banca” “Ma queste sono cose da denuncia!” si infuriò Cristina “Chiamo subito la mia amica avvocato…” “Non ce n’è bisogno” l’interruppe Franco “siamo già percorrendo le vie legali con un avvocato privato e uno assegnato dalla banca, che comunque ci ha concesso un dilazionamento e una rateizzazione” “Hai finito, Frank?” chiese la madre
“Beh… io… sì, continua pure tu Linda”
Linda era la madre di Cristina e di sua sorella Giovanna
“Ho avuto un’occasione fantastica per recuperare dei soldi ed evitare di passare anni a pagare rate all’università” disse Linda raggiante “Cioè? Non capisco, che occasione?” incalzò Cristina
“Ecco qua!” rispose la madre, porgendole un foglio “Leggi!”
Era scritto fitto e Cristina era troppo impaziente, come spesso le capitava “Non capisco, sembra un contratto, ma che cos’è?”
“Ti ho trovato un lavoro!”
“Mamma io ce l’ho un lavoro!” “Ma su, dai, sei un’impiegata qualunque, QUESTO è un lavoro. È un BEL lavoro!”
“Sì, ma non capisco, di che si tratta, parla di spettacoli, prove, concerti?”
Frank e Linda si guardarono per un attimo poi il padre, sconfitto e con le spalle basse, si risolse a dire “Tua madre ti ha venduto a una boyband”
“Scusa, come?”
“Sì sì è scritto tutto lì, diventerai famosa, ci faranno interviste, mi ospiteranno in TV, ah sarà meraviglioso!”
“Mamma, ma non puoi vendere le persone! E poi una boyband, ti sembro un ragazzo?”
“Ti conci sempre così da maschiaccio che non si vede quanto sei carina! Tanto vale no? E poi ormais iamo nel 2023 si possono anche aggiornare, una cosa mista, inclusiva!”
Cristina inspirò a fondo, lentamente, cercando di raccogliere i pensieri “Ok, aspetta, andiamo con calma e con logica” era sempre stata una persona molto razionale e posata, una gran forza nel suo lavoro “e se io non volessi farlo?” ecco però di nuovo l’impulsività, la sfida ai suoi genitori.
“Non è quello il punto, cara, eri ancora nello stato di famiglia, ti hanno già presa, inizi fra tre settimane”.