Scritto bene VS Scritto male

Attenzione: spoiler! Ho visto la serie TV “Cabinet of curiosities” di Guillermo del Toro, e ho delle opinioni.

Fermo restando che ognuno ha i suoi gusti, questo lungo post vuole fare una piccola analisi sulla scrittura di due episodi in particolare: The viewing e The outside. Non voglio far cambiare idea a nessuno, solo affrontare l’argomento sviscerandolo (mi sembra l’aggettivo adatto, considerato il genere!).

Partiamo da The viewing.
La premessa: un eccentrico collezionista di persone.
L’incipit: un’auto che guida spericolata.
Punto di vista (di partenza): quello della scienziata (nonché ottima pilota).
Poi tutto si sfalda: i personaggi sono stati caratterizzati usando il dialogo (in un racconto breve è un buon espediente, non ho molto tempo o spazio per farlo, quindi o uso pochi personaggi o faccio del mio meglio con pennellate di dialogo) peccato che i dialoghi fossero un girotondo continuo di battuta-risposta-battuta-risposta, sempre a turno, quasi sempre nello stesso ordine di personaggi, sempre con le stesse dinamiche (il fricchettone se la tira, lo scrittore si incazza con lui, la scienziata è in imbarazzo, il musicista fallito si sente un fallito). Il che porta i personaggi ad essere degli stereotipi piatti.

Gli altri personaggi “di contorno” (l’autista che ha una storia legata in qualche modo al kalashnikov dorato, ma non ci è dato sapere di più, e la dottoressa -che scopriamo solo a parole essere una dottoressa- che sembra essere lì solo perché fornisce droghe ed è di bella presenza) sono a questo punto superflui: caratterizzazioni in più da gestire che non aggiungono nulla.
E infine il collezionista… Hugh Hefner rotolato in una montagna (letteralmente) di cocaina. Però dov’è la sua collezione? Mi spiega -di nuovo, a parole– che ha chiamato i quattro lì da lui per le loro peculiarità, mi dice -sempre a parole- che i fiori o la musica sono esclusive sue e chi li ha prodotti ora lavora solo per lui…

E poi basta. Poi andiamo tutti allegramente strafatti a vedere un sasso celeste e, nella migliore tradizione di quei mona di Alien “non toccate niente!”, cosa facciamo? Tocchiamo tutto.
Qualcuno muore male, due fuggono all’impazzata (dopo un considerevole lasso di tempo… ma va be’, incolpiamo l’effetto delle droghe) salvo inchiodare l’auto nel mezzo del nulla, così.
E il mostro segue un canale di defluimento fino alla città, fine. Quindi qual è stato il punto di tutto ciò? Boh.

“Eh, ma è un finale aperto.” No, un finale aperto non è una cosa non finita e abbozzata, è una cosa che ha una conclusione che però è aperta all’interpretazione di chi legge/guarda.
“Ma è una citazione a Tarantino.” No, signori miei, Tarantino non è un regista che apprezzo, ma di sicuro i dialoghi dei suoi attori sono la cosa più realistica che io abbia mai visto nel cinema. Quelli di The Viewing avrebbero tanto voluto avere un briciolo di quella verve, ma no.
“Ma è una citazione ai film di serie Z.” Allora, parliamone, se già si chiamava serie Z un motivo ci sarà stato (The Toxic Avenger, anyone? Lo nomino giusto per farvi capire che non ne faccio una questione di principio), ma a prescindere da questo: se vuoi fare una cosa “volutamente male” ma quel “volutamente” si perde, resta che ti è venuto male.
Punto.

Passiamo a The outside.
Sarò più breve (in genere ci vuole meno ad analizzare perché una cosa è piaciuta, è come se nel dire “non mi piace” uno si debba giustificare mentre al contrario no).
La premessa: eterna lotta fra bellezza interiore ed esteriore, peer pressure.
Incipit: lei sente un rumore, gira per casa (e parla con i suoi animali imbalsamati) chiama la polizia/il marito (e capiamo che ha pure qualche disturbo d’ansia o simili).
Il punto di vista, dall’inizio alla fine, è quello della protagonista.
I personaggi sono pochi (cosa che rende più facile gestirli nello spazio ridotto di un cortometraggio/racconto breve): la protagonista, cliché della donna non convenzionalmente bella, che non si cura, ma che ha abilità e interessi vari (caccia, tassidermia, essere accettata).

Il marito, che sembra il classico marito superficiale che non si interessa molto delle “paturnie” della moglie (ma, plot twist, evoluzione del personaggio: la ama davvero così com’è! certo, i modi bruschi e un po’ paternali lasciano a desiderare, ma è meno peggio di quanto sembri).
Le colleghe di lavoro, trattate principalmente come personaggio unico: le generiche “ochette frivole” tutte gossip, chiacchiere e trucco&parrucco. Che però non vengono giudicate dalla protagonista, ma guardate con ammirazione e voglia di essere accettata. Nel gruppo una si distingue per essere, forse, un pelino più sensibile verso la protagonista, e l’altra è un po’ l’ape regina della situazione che -comunque- riesce a non risultare cattiva nei confronti di nessuno (superficiale, pettegola, ok, ma non maligna).
E infine il presentatore TV: un personaggio allucinatorio, ovviamente esagerato e caricaturale (qui il “fare di proposito” è venuto bene) che incarna punto per punto i messaggi tossici e contradditori dell’industria cosmetica.

Il racconto poi evolve (ci sono tre atti ben distinti: la premessa, la discesa centrale, l’epilogo), la protagonista evolve -male, ok, ma evolve: è l’arco negativo del personaggio– per assurdo finalmente si fida di se stessa, di quel che sente, fa qualcosa per se stessa (in modo malato finché volete, ma lo fa… e con che conseguenze!).
Il finale è una delle cose più grottesche che io abbia mai visto: lisergico, triste, comico, inquietante.
E soprattutto è chiaro: la protagonista ha ottenuto quello che voleva. Ma era davvero quello che voleva? Se ne sta rendendo conto pian piano, è arrivata al punto X, ma a che prezzo?
E qui volendo c’è una parte che rimane davvero aperta: che conseguenze avrà l’omicidio del marito? Il sospetto legittimo è che tutte le colleghe abbiano alla fine eliminato il consorte? La collega più sensibile dirà qualcosa o cederà alla pressione?

Per concludere: i gusti sono gusti, e vanno rispettati.
Se però il discorso si sposta sull’aspetto un po’ più analitico, tecnico, allora la questione cambia e ci si possono trovare pro e contro. Trovo che comunque analizzare cose “ben fatte” e cose “migliorabili” sia sempre utile per imparare qualcosa, soprattutto se si è appassionati di argomenti che hanno a che fare con la creatività.

One thought on “Scritto bene VS Scritto male

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *