Talento

Per scrivere ci vuole talento.
Che bravo, come scrivi bene.
Beata te che scrivi così.
Mi piacerebbe scrivere, ma non sono portato.

Ho fatto degli esempi con la scrittura, ma sono frasi che si sentono dire attorno a chiunque faccia qualcosa di creativo, di artistico. Suonare la chitarra? Ah, che talento che hai. Disegnare? Sei proprio portato naturalmente.

Adesso pensate a una cosa: l’avete mai sentito dire a una docente di fisica nucleare? A un pilota di aerei? A un panettiere? A un’amministratrice delegata?
No, nessuno si sogna di dire a questi professionisti “che bravo che sei nel tuo lavoro, si vede che ci sei portato, sei un talento naturale”, perché sappiamo tutti che sono cose che si imparano, si studiano, si praticano, si allenano fino alla nausea, e quindi sono abilità acquisite.

Ma pensate anche a un’altra cosa: andare in bicicletta, guidare un’auto, nuotare, correre. Sono forse cose “naturali”? Che ci vengono spontanee? No. Quando abbiamo imparato a fare qualsiasi cosa, da molto piccoli, si è trattato sempre di tre cose:

  • Imitazione
  • Esercizio
  • Ostinazione

Nessuno di noi ha iniziato a correre appena posato a terra. Nessuno di noi ha guidato la Parigi-Dakar senza aver mai fatto imballare il motore.

E allora perché, quando si tratta di arte e creatività (che oggi in questo discorso userò in senso ampio e intercambiabile, portate pazienza), di talento, dev’essere una questione mistica, quasi esoterica?

La risposta è lunga, motivo per cui ho preferito un post ben articolato, e parte da qualcosa che non vi piacerà.

Perché siamo pigri.

Ma non solo tu, io e il mio vicino di casa. Tutti siamo pigri, tutti gli esseri umani, proprio per definizione. Il nostro cervello non vuole fare fatica (c’è anche un libro, bellissimo, che si chiama “Don’t make me think” è sul design ma è illuminante anche su altri aspetti, ve lo consiglio!): lo scopo principale del nostro cervello è mantenerci in vita, al sicuro. Quindi risparmia energie, accumula risorse: è fatto così.

All’atto pratico significa che campiamo di euristiche e pregiudizi, perché è più facile e veloce.
Ed evolutivamente parlando questo metodo ha avuto i suoi vantaggi; vi faccio un esempio banale: sento un ronzio, vedo con la coda dell’occhio un affare a righe gialle e nere. Risposta istintiva? Scappo, mi copro la testa, insomma cerco di difendermi. Perché -evolutivamente parlando- non ho tempo di stare a fare l’entomologo e stabilire se è un’ape che sta raccogliendo il miele tutta tranquilla, un calabrone killer, un bombo innocuo o uno di quegli insetti che mimano i colori delle vespe per autodifesa. Nell’immediato, io, mi difendo o scappo.

Questo succede perché se, per ogni cosa che ci si para davanti, noi dovessimo fare un’analisi completa -di che cos’è, come si presenta, forma, colore, rumore, odore, circostanze, connessioni eccetera- non usciremmo mai dallo stadio neonatale (uno dei motivi per cui i neonati dormono così tanto è anche, fra le altre cose, la grande stanchezza mentale del dover codificare qualsiasi cosa intorno a loro: devono catalogare il mondo intero!). Se ogni volta che mi trovo di fronte una forchetta dovessi fare da capo tutto il giro…

[cos’è? Sembra un oggetto inanimato, sembra di un materiale duro, ha una parte più lunga e stretta e una con… con delle punte? Ahi, sì, punte. Però ehi, dal lato lungo e stretto riesco a tenerlo in mano… aspetta, ok, così è più comodo tenerlo in mano. E ora? Che posso farci? Ahio, no per grattarmi la testa fa male. Mmm… oh, posso suonare battendolo dappertutto! Ehi che fico ci ho preso su le perline… Oh, guarda questo pezzo di carota scotta, ah-ah! Posso infilzarlo con le punte e non scottarmi le dita, che fico! ]

mon Dieu non faremmo nient’altro dal mattino alla sera, altro che dipingere la Cappella Sistina!!!

Quindi, siamo pigri per definizione. E più invecchiamo più diventiamo mentalmente pigri anzi, accidiosi. “Ah come mi piacerebbe saper scrivere -disegnare, suonare, cantare, ballare, ecc- come te!”.
Provate a rispondere che si tratta di studio, esercizio e taaaaanta pratica.
“Eh no, il tuo è talento naturale!”

©Sarah Anderson – img da tapas.io (click sull’immagine per vedere l’originale)

Troviamo più comodo e soprattutto più consolatorio dire a noi stessi che per certe abilità è questione di talento naturale, perché così abbiamo l’alibi perfetto per giustificarci con noi stessi. Non ricordo dove ho letto questa frase, ma è profondamente vera: tu non vorresti “saper scrivere come…” tu vorresti che “scrivere come…” fosse facile.

Nell’epoca della fruizione di contenuti super rapidi e sempre più “a misura della bocca”, la frase che vi ho appena citato è sempre più vera.

Ok, ma allora qual è la parte meno antipatica della risposta riguardo al talento?

Che il talento non esiste.

E non è una risposta filosofica, è una risposta scientifica. Ci sono studi di neuroscienziati & co (insomma, non proprio persone che si sono improvvisate sagge dal mattino alla sera) che hanno evidenziato come quello che comunemente si considera “talento” sia in realtà il risultato di 10mila ore di pratica. Vero anche che questo studio è stato semi-sconfessato, anzi, gli è stata fatta un’aggiunta, una precisazione: la pratica fine a se stessa non basta, ci vuole una buona formazione (insegnanti, mentori, programmi e obiettivi di studio).

Anche qui ho un libro da consigliarvi “Fatti di musica” scritto da Daniel Levitin, un ex tecnico del suono diventato neuroscienziato.

Lo so, lo so, leggere “diecimila ore di pratica” è un po’ un colpo allo stomaco, sembra una quantità irraggiungibile.

Ma facciamo i conti: sono 1250 giornate lavorative di 8 ore, cioè quasi 5 anni di lavoro d’ufficio, senza ferie né malattie, con solo i weekend. Messa giù così non è più tanto tremenda la situazione, vero?

Dove voglio arrivare? Che a scrivere si impara, così come si impara a leggere, a fare bilanci di contabilità, a guidare il motorino, a fare il pane fatto in casa, a fare colloqui di lavoro, a suonare il pianoforte, a comporre musica, a scolpire il marmo, ad attaccare un bottone a una camicia, a fare la spesa in meno di trenta minuti, a fare operazioni a cuore aperto o equazioni di secondo grado.

Quando vi ho chiesto, nei miei sondaggi su Instagram, se pensavate che a scrivere si potesse imparare oppure no, tanti hanno risposto Si può imparare, ma serve talento.

Ma ora che abbiamo stabilito che il talento non esiste, che fare di quella risposta?
Penso di poter interpretare cosa si intende (poi fatemi un fischio se ho toppato): ovviamente impariamo a leggere e a scrivere a scuola, prima l’alfabeto, poi parole singole, poi suoni complicati, pensierini, intere frasette, periodi complessi (ciao analisi grammaticale, ciao analisi logica, vi si dimentica troppo presto) fino al tema della maturità.

Poi smettiamo. Eppure siamo immersi in un mondo di scritte (cartelli, sottotitoli su tiktok, post su twitter, descrizioni sotto le foto di instagram, pipponi lamentosi su facebook, interi thread su tumblr, giornalino delle offerte del supermercato, terms&conditions dei siti ah no queste non le legge nessuno, però ci sono i regolamenti per concorsi e giveaway… continuo?!) mandiamo messaggini ogni due per tre.
Sappiamo scrivere, no?

Quindi cos’è che manca?

Quello che chiamiamo “talento”, parola a cui a questo punto serve dare una nuova definizione. Non più un’entità mitologica, un dono intangibile che Flora Fauna e Serenella ci hanno imposto in culla, ma la differenza fra un piatto sciapo e uno ben condito (madonna che poetessa).

Quel “quid in più”, quel pizzico di sapore in più, o quel particolare punto di vista che non avevate considerato, l’attenzione a certi dettagli, la scorrevolezza di una frase o un nuovo modo di rendere il pizzo sul marmo.

La definizione di talento può essere allora, appunto, un qualcosa in più rispetto ad altri (Ad altri chi? Non è -magari- solo rispetto a te -o a me- che leggi?), uno stile, la cosiddetta “voce”.

E si può imparare anche quello?
Io credo di sì. Ma ne parliamo in un altro post 😉

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